PERCHE' NON E' SOLO UNO SPORT
Capita spesso a me, come agli altri insegnanti o appassionati di arti di Marte, di ricevere critiche o segnali di profonda incomprensione dai comuni profani. E' per loro innaturale l'enorme importanza, la devozione religiosa con cui ci approcciamo alla nostra disciplina, e gliene sfugge il senso reale.
Qualche giorno fa, oziando presso una rinomata spiaggia della nostra penisola, si è intavolata una di quelle discussioni vacanziere che, senza capo né coda, finiscono prima o poi per debordare in interrogazione stile commissariato di PS per il povero jitsuka o assimilabile. Partita come sempre in questi casi rilassata, la conversazione è diventata un "Tutti vs 1" stile far west, e non c'è -ovviamente- stato verso per me di riuscire a infilare nella zucca degli astanti che 22 bischeri in mutande a correre dietro a una palla nulla hanno a che vedere con due lottatori dentro una gabbia.
E' colpa mia, ho polemizzato con chi NON può proprio capire. Non si può spiegare che sapore ha una fragola, sono parole gettate al vento. Come ben insegnava il M° Aristocle di Atene -aka Platone- le caratteristiche che determinano l'appartenenza alle categorie sociali non guerriere (borghesia e proletariato), con buona pace di quel truffatore pennivendolo di Karl Marx, sono animiche. Nascere figlio di un miliardario o di un impiegatino a CoCoCo nulla o quasi ha a che vedere con la qualità dell'anima del soggetto, specie in questa epoca di dissoluzione finale. Chi si è, insomma, lo si è a priori, per un destino, ma questa cosa va concepita interiormente, è frutto di un'esperienza che non si tramanda con le sole belle parole.
E' vero che le arti realmente marziali oggi sono aperte alle masse, e quindi per tanti sono diventate grosso modo degli sport, persone di ogni estrazione le praticano con fini ricreativi vari, si sa. Resta il fatto che le arti marziali reali o anti-tradizionaloidi NON sono degli sport, esse sono nate da guerrieri e sono state sviluppate da questi ai fini che la loro classe riteneva imperativi: disciplina e miglioramento di sé.
Per capirsi: nessun vero esperto di Jiu Jitsu intende la sua pratica come un giocatore fa col suo Badminton. Non lo fa Mario che non è nessuno, e tantomeno lo fanno i veri campioni e leader internazionali dell'arte suave. In vari articoli ho cercato di riportare la barra a Nord, verso la stella polare del BJJ, cioè il senso ulteriore che questa nostra Via ha rispetto agli importantissimi eventi agonistici.
Siccome non è solo uno sport, va distinto accuratamente ciò che facciamo e dal lato competitivo interno, e dalle comuni pratiche sportive, in specie i giochi con la palla. Pena, come ho più volte ribadito, lo sciupare il 95% delle possibilità evolutive in senso umano che quest'arte dona.
In particolare mi voglio soffermare sul diverso approccio che un vero combattente ha con vittoria e sconfitta. Per il nobile guerriero la vittoria è in sintesi quella su se stesso, è una palingenesi. Per migliorare noi stessi ci dobbiamo confrontare coi nostri limiti e vincere significa vincersi. Il nostro avversario sul tatami/gabbia è il riflesso delle nostre paure e come tale deve essere sportivamente annientato, il nostro sforzo dev'essere quindi massimale, ma come uomo è colui che ci regala la possibilità di misurarsi e sconfiggersi, e pertanto sarà sempre rispettato se non addirittura ammirato. Tutto il contrario di ciò che le classi produttive intendono sull'argomento. I vayshya e gli shudra infatti concepiscono lo scontro come puramente dualistico, alla maniera delle bestie che si contendono l'osso, e proiettano i loro bassi istinti sul gioco-sport che il regime ammannisce per tenerli lobotomizzati davanti alla tivvù.
Il borghese è quella creatura che pensa solo al suo interesse sociale e materiale, e il plebeo soltanto a quest'ultimo. Ragionano su lunghezze d'onda interamente egotiche, fissati sull'utile immediato, mentre chi è alla ricerca della conoscenza di Sé valuta con diversi parametri i fatti dell'esistenza. Per millenni gli appartenenti alle pure classi di guerrieri (oggi estinte) hanno visto la loro mera vita umana come un qualcosa di incastrato all'interno di genealogie e tradizioni. Mentre il borghesotto pensa solo alle comodità e alla fama, e il proletario alle richieste del suo ventre, il nobile cerca una risposta alle domande del suo animo.
Chi sono io? Cosa sono venuto a fare su questa terra? Qual'è lo scopo della mia nascita? E via filosofeggiando. Ecco la natura interiore del guerriero, un uomo che cerca. Per vedere meglio dentro di sé l'uomo-che-s'interroga ha bisogno di rendere nitida la lente che lo frappone al mondo, la sua psiche, e la ripulisce giorno dopo giorno tramite la disciplina. La natura grossolana del nostro insieme psicofisico poco evoluto di mammifero richiede un notevole et inesausto sforzo di pulizia, ecco perché l'ars non ha una data di termine (come invece gli sport).
Con tutte le mortificazioni e modificazioni che l'ambiente marziale ha subito in quest'epoca terminale della civilizzazione occidentale, nello scontro corpo a corpo ancora prevalgono sentimenti di virilità e valetudine. E' così perché il nostro sport non è intrinsecamente, che uno lo sappia o no, che lo creda o no, soltanto uno sport.