venerdì, febbraio 11, 2011


IL JIU JITSU E LA PEDAGOGIA dell' ABBRACCIARE



Come ho spiegato in tutte le salse, il Jiu Jitsu e in generale le lotte sono giustamente considerati metodi educativi d'eccellenza per i giovini. Il Judo in Italia ha per fortuna un discreto successo tra le masse analfa-televisionizzate e ancora regge, mentre la Lotta Greco-Romana e Stile Libero - il miglior sport al mondo per i ragazzini dopo il BJJ- è stato 'suicidato' dalla riprovevole casta ladrona imposta dal nemico occupante.

E' quindi tutto sommato, non si sa bene perché, diffuso anche nella povera italietta, servitrice peggio di Mirandolina, il senso di portare i fanciulli sulla materassina. Ho la sensazione che perlopiù si tratti di un modo pecoresco di trovare la maniera di sbolognare il pargolo un par d'ore, ma certo ci sono eccezioni. Il lottare ancora ispira le famiglie e forse per qualche anno a venire ci sarà spazio per diffondere il Jiu Jitsu tra i minori (come anche noi di Centurion stiamo facendo).

Dozzine di volte ho ricordato che la Lotta è stata la base educativa di TUTTE le civiltà elevate e quindi sorprende un pochetto che la devastata barbarie nostrana abbia un milligrammo di sostanza similare all'Atene periclea, alla Roma di Augusto, quindi non mi resta che star lì ad analizzare il motivo fondante della centralità delle arti dell'abbracciarsi.

Cominciamo dal DNA. La specie umana e molte dei mammiferi hanno nella lotta il principale metodo interattivo tra i cuccioli. Lottare NON è uno sport, basta osservare dei leoncini o dei gorilla nei documentari per capire che il gioco e l'apprendimento sociale e motorio sono veicolati da questa attività geneticamente programmata.

In seconda battuta si ricorda che la mano umana è priva di uso naturale percussivo, è uno strumento delicatissimo e di finezza estrema, e che a noi mancano gli artigli o le zanne: l'essere umano è un grappler naturale. Qualunque uomo inesperto preso dalla fregola omicida attacca un suo simile come un jitsuka senza tecnica: mena ceffoni e calcioni, chiude la distanza e si avvinghia, portando l'avversario per terra dove cercherà la 'finalizzazione' strozzandolo o il ground&pound d'ignoranza: lottare è senza ombra di dubbio la maniera umana geneticamente programmata di combattere a mani nude.

In pratica lottare è spontaneo e quindi una pedagogia che non lo disciplinasse e ordinasse sarebbe come minimo demenziale. Una società priva di lotta sarebbe una società malsana e sghemba, e infatti NON esiste una cultura per quanto periferica e microscopica che non veda i cuccioli d'uomo lottare e gli adulti 'gareggiare' nel loro modo naturale di stabilire la gerarchia. Certo non vi sfuggirà che in tutte le lingue "lottare" è equivalente a combattere, contrastare qualcosa e qualcuno, e che non ha nessuna sinonimìa con giocare, divertirsi, svagarsi. Si gioca al calcio, alla bocce e al dottore ma non si gioca alla lotta.

Il bambino impara a vivere rotolandosi con gli amici, impara gli schemi motori necessari alla sua crescita e apprende a situare se stesso all'interno del gruppo di suoi pari: lottare è INDISPENSABILE. Cosa insegna questa attività intrinseca della nostra specie, oltre che schemi motori e abilità combattive? Insegna a PERDERE. Attualizzando la sconfitta a ogni allenamento, inquadrandola e radicandola all'interno di un contesto 'regolamentato' il piccolo uomo esegue quella forma di autoeducazione che il Cosmo ha previsto per noi. Scherzando con la lotta in realtà esegue il più serio di tutti i compiti, la stabilizzazione della personalità tramite trial&error, dando al pulcino in kimono una strategia per abituarsi al contatto fisico con l'estraneo e gestire così la sua dipartita dal castrante ancorché amorevole abbraccio materno. Percuotere infatti è un allontanare e nella crescita il bimbo ha un bisogno assoluto della sensazione opposta, ci essere capace di abbracciare un forestiero senza timore, di stare sulle sue gambe in un turbinio ormonale e sentirsi in grado di gestire lo schockante tocco di un 'nemico'.

La società intera quando sana poggia su di individui psicologicamente equilibrati, di uomini con le controsfere, mondati il più possibile dalla frustrazioni e dalla piccole paure ma che dall'eccessiva e pericolosa aggressività che contraddistingue chi non ha avuto figure maschili di riferimento durante il suo sviluppo. Adulti dotati di temperanza e gravitas l'hanno appresa crescendo dal padre, dai maschi della famiglia e da tutta una serie di istruttori alla mascolinità che le culture tradizionali d'ogni era hanno specificamente individuato negli istruttori marziali/militari. La razza umana è un specie di cacciatori di gruppo, come lupi o sciacalli, ed è strutturalmente necessario che la normale tendenza al lavoro di equipe sia cementata da attività in cui i singoli membri del gruppo si scontrano senza eccessive ferite, al fine di enucleare il leader e le potenzialità dell'asse gerarchico.

L'adulto ha programmato geneticamente la necessità di insegnare il suo vissuto alla nuova generazione quanto il virgulto di apprenderlo, ed è solo nella lotta che l'arte del corpo -come prevista da Madre Natura- può essere davvero passata dal vecchio al giovane. Insegnare così come apprendere è un tratto geneticamente predeterminato nei mammiferi, l'essere umano nasce scolaro e maestro, e il suo codice genetico vuole che insegni tramite suoni e gesti, soprattutto con il tatto oltre che con la vista.

Il Jiu Jitsu, mercé la genialità dei maestri, è arrivato a noi quale forma culturale specifica che però incarna un tratto naturale a-specifico, il prendersi e rotolarsi assieme. La naturale morbidezza e cedevolezza dei cuccioli nel gioco-lotta è stata osservata, codificata e applicata creando un metodo che trasferisce le qualità ludiche in un contesto di sopravvivenza, risultando quindi più immediato e funzionale di altri sistemi in quanto istinto geneticamente programmato e non costruzione razionale senza base forte nel DNA.

Molto spesso si sente dire, e con buona ragione, che solo nel Jiu Jitsu brasiliano (o naturale che dir si voglia) è regola che un praticante minuto ma esperto sconfigga con facilità un grosso ma rozzo principiante, senza sforzo muscolare apparente. L'osservazione diretta ci conferma che schizzetti di 60 kg attorcigliano prendendoli di tacco pesisti di 100kg senza addestramento specifico, e tutto ciò senza la necessità -ineliminabile nelle arti di striking (o culturali)- di dover fare male al grossone di turno. Questa morbidezza e tranquillità sono il tratto distintivo di un metodo che crea forti strutture di sostegno nella psiche dell'atleta, di un'arte che confacendosi alla natura umana più vera migliora l'adepto sotto tutti i punti di vista (soma, psyke, nous) e dunque adempie alla richiesta di qualunque pedagogia illuminata.





3 commenti:

Lorenzo Ostano ha detto...

Leggere articoli del genere è sempre un piacere oltre che una fonte di conoscenza. Compliments!

Giovannone ha detto...

Un articolo notevole e assai profondo! Un vero e proprio manuale di pedagogia, complimentoni!

Mario Puccioni ha detto...

Gentile il vs apprezzamento, Lorenzo e Big John.